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A talk with Daniel Baumann
08.05.19

A talk with Daniel Baumann

Fotografie di Nicole Bachmann
Nato e cresciuto a Burgdorf, una piccola cittadina Svizzera, Daniel Baumann ha trovato nell’arte una via alternativa per fare esperienze non convenzionali e acquisire conoscenza, stimolare il pensiero e ampliare la propria visione del mondo. Oltre a curare la Kunsthalle di Zurigo, Baumann ha fatto parte del comitato che ha assegnato la terza edizione di This Is Not a Prize. Durante il nostro incontro abbiamo parlato della premiazione, delle origini della sua passione per l’arte e di come questa possa costituire uno strumento di analisi – e modifica – della società odierna.
Nato e cresciuto a Burgdorf, una piccola cittadina Svizzera, Daniel Baumann ha trovato nell’arte una via alternativa per fare esperienze non convenzionali e acquisire conoscenza, stimolare il pensiero e ampliare la propria visione del mondo. Oltre a curare la Kunsthalle di Zurigo, Baumann ha fatto parte del comitato che ha assegnato la terza edizione di This Is Not a Prize. Durante il nostro incontro abbiamo parlato della premiazione, delle origini della sua passione per l’arte e di come questa possa costituire uno strumento di analisi – e modifica – della società odierna.
A talk with Daniel Baumann
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Come ti sei appassionato all’arte contemporanea?

Mio padre scriveva di arte contemporanea e organizzava mostre a Burgdorf, una piccola cittadina dell’Emmental, in Svizzera, dove sono cresciuto. Ricordo artisti venire a casa nostra, ero affascinato dal loro modo di vedere le cose e dal comportamento stavolta imprevedibile. L’arte sembrava un ambiente promettente, dove le persone pensavano e agivano in modo non convenzionale. Per me era, ed è ancora, una terra di mezzo, in cui regna serietà riguardo la vita, la storia, la politica e la cultura visuale, ma allo stesso tempo è impegnativa, stimolante e ironica.

Qual è la parte più stimolante del lavoro di curatore? E quella più difficile?

La parte più stimolante è incontrare gli artisti, capire di cosa “parla” la loro arte, organizzare e curare le mostre, condividere il loro lavoro e i loro pensieri con il pubblico. Quella più difficile – o forse meno interessante – è la raccolta fondi, nonostante ci abbia fatto l’abitudine e, anche in questo caso, incontri persone molto interessanti. Non posso lamentarmi del mio lavoro.

Prima di iniziare il tuo percorso alla Kunsthalle di Zurigo, hai avuto diverse esperienze di lavoro in Europa, Asia e negli Stati Uniti. In che modo ha influito questo bagaglio multiculturale sul tuo approccio?

Sono cresciuto tra gli anni ’70 e ’80, avvolto da una radicata cultura occidentale. Il post-colonialismo e il femminismo hanno analizzato a fondo e fatto emergere seri dubbi riguardo i suoi valori e la sua egemonia. Poi, nel 1989, il mondo si è aperto e le vecchie ideologie sono diventate ancora più inutili e vecchio stampo. Mi sono reso conto di quanto la mia visione e la mia conoscenza fossero limitate, volevo vedere e imparare di più, così ho iniziato ad andare oltre i soliti luoghi. Ho realizzato una mostra in corso a Tbilisi, in Georgia, lavorato per il Dhaka Art Summit in Bangladesh, trascorso due anni a Pittsburgh, co-fondato uno spazio indipendente e lavorato diversi anni per la Fondazione Adolf Wölfli. Ho portato tutte queste esperienze alla Kunsthalle per trasformarla in un’istituzione stimolante e imprevedibile.

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L’arte sembrava un ambiente promettente, dove le persone pensavano e agivano in modo non convenzionale. Per me era, ed è ancora, una terra di mezzo, in cui regna serietà riguardo la vita, la storia, la politica e la cultura visuale, ma allo stesso tempo è impegnativa, stimolante e ironica.
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Come si sviluppano le collaborazioni con gli artisti? Che tipo di relazione si instaura tra di voi?

Amo l’arte e gli artisti perché mi permettono di imparare. Io posso contribuire con la mia esperienza di curatore e il mio ruolo di primo visitatore. Curo esposizioni per rendere l’arte pubblica e accessibile. Una mostra è uno strumento, non un fine.

Sei riconosciuto a livello internazionale come uno dei curatori più rivoluzionari. Che tipo di innovazione pensi sarebbe utile all’ambiente artistico contemporaneo?

Grazie, ma non sono sicuro di essere così rivoluzionario. Forse solo un po’ selvaggio, curioso e a volte scontento di come vanno le cose. Ma sì, mi piace prendermi dei rischi e supportare gli artisti che fanno altrettanto. Penso che viviamo in un’epoca molto convenzionale, dove le persone sono ossessionate dal piacere agli altri ed essere seguiti. Noto una crescente standardizzazione delle nostre vite, legata a una crescente polarizzazione. Bisogna trovare una risposta a tutto ciò, costruire ponti e distruggere muri. Per me l’arte, le mostre e istituzioni come la Kunsthalle sono possibili risposte: creano una spazio in cui le persone possono incontrarsi, venire coinvolte, discutere, divertirsi e dare il proprio giudizio.

Durante FIAC 2018, il terzo This Is Not a Prize è stato assegnato all’artista californiana Liz Larner. Avendo fatto parte della giuria, puoi dirci cosa ti ha più impressionato del suo lavoro? Per quale motivo avete scelto lei tra tutti gli artisti partecipanti?

Liz Larner realizza principalmente sculture, quindi il suo lavoro ruota attorno la questione del corpo nello spazio (pubblico e privato), che affronta con eleganza e violenza. Il colore gioca un ruolo importante, così come l’assenza. I volumi occupano lo spazio e, a volte, lo dissolvono. C’è un gioco di seduzione, ma anche veemenza. Corpo e spazio sono e rimangono dei campi di battaglia, oggi al centro di diverse agitazioni – basti pensare alla politica dell’identità, #MeToo, ai social media e all’abuso di potere. Nell’arte degli ultimi quarant’anni, alcune delle più lucide interpretazioni sull’argomento provengono da donne, soprattutto scultrici (come Louise Bourgeois, Carol Rama, Phyllida Barlow o Isa Genzken). Molte di loro sono state riconosciute tardi e la loro irriverenza nell’affrontare la tradizione o analizzare la storia non era apprezzata né dai curatori, né dalle istituzioni, né dal mercato. La seconda generazione è composta da artiste come Liz Larner, che stanno iniziando ad essere riconosciute solo ora, mentre la controparte maschile ha ottenuto fama e successo. Per questo premi come This Is Not a Prize sono importanti: promuovono il cambiamento.

 

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Ricordi la prima volta che sei entrato in contatto con Mutina? Cosa ti ha colpito del nostro team e del nostro approccio personale?

È stato come entrare in una fantastica galleria. Si percepisce immediatamente che Mutina promuove un modo diverso di pensare, dove sperimentare e fare esperienza sono la chiave e i designer e gli artisti vengono presi sul serio, con l’obiettivo di rendere (forse) possibile l’impossibile. Ho scoperto un mondo intero di creazione e produzione!

Tra i numerosi artisti con cui hai lavorato, c’è qualcuno che immagini progettare una nuova collezione Mutina?

Ci sono diversi artisti con cui si potrebbe creare una collaborazione interessante. Sono sicuro che Lena Henke, Emil Michael Klein, Gabriel Sierra, Cheryl Donegan o Rob Pruitt sarebbero felici di confrontarsi con la ceramica!

Bisogna trovare una risposta a tutto ciò, costruire ponti e distruggere muri. Per me l’arte, le mostre e istituzioni come la Kunsthalle sono possibili risposte: creano uno spazio in cui le persone possono incontrarsi, venire coinvolte, discutere, divertirsi e dare il proprio giudizio.
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