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A talk with Bart Van Der Heide
08.04.20

A talk with Bart Van Der Heide

Fotografie di Juliana Gomez
Per il curatore Bart Van Der Heide la scoperta dell’arte contemporanea è stato un punto di svolta, nonché l’inizio di un percorso di crescita personale e professionale in continua evoluzione. Dopo aver lavorato come direttore allo Stedelijk Museum di Amsterdam, gli è stata recentemente assegnata la medesima carica presso il Museion di Bolzano. Durante il nostro incontro, ci ha parlato del suo approccio personale e di come è stato plasmato con il tempo e l’esperienza, del suo rapporto con gli artisti e delle sue impressioni in merito alla quarta edizione di This Is Not a Prize, a cui ha partecipato in veste di giurato.
Per il curatore Bart Van Der Heide la scoperta dell’arte contemporanea è stato un punto di svolta, nonché l’inizio di un percorso di crescita personale e professionale in continua evoluzione. Dopo aver lavorato come direttore allo Stedelijk Museum di Amsterdam, gli è stata recentemente assegnata la medesima carica presso il Museion di Bolzano. Durante il nostro incontro, ci ha parlato del suo approccio personale e di come è stato plasmato con il tempo e l’esperienza, del suo rapporto con gli artisti e delle sue impressioni in merito alla quarta edizione di This Is Not a Prize, a cui ha partecipato in veste di giurato.
A talk with Bart Van Der Heide
A talk with Bart Van Der Heide

Come ti sei appassionato all’arte contemporanea?

Da ragazzo ero interessato solo al passato, dalla Grecia classica all’Italia rinascimentale, ma poi ho capito che si trattava di un modo per legare tanto con l’antichità quanto con il presente. La storia non è mai immobile, viene costruita attraverso il futuro che progettiamo per noi stessi. In questo senso, scrivere la storia è più simile all’atto di dimenticare che di ricordare, e la cultura contemporanea è il luogo in cui queste due proiezioni si intersecano. A 19 anni vidi la prima mostra di arte contemporanea allo Stedelijk Museum e mi colpì come nulla aveva fatto prima. Pensai: cosa sto facendo con la mia vita? È qui che le cose sono in gioco! Ero emozionato all’idea di testimoniare la realizzazione di opere capaci di dare forma alla storia futura.

In quanto curatore, che cosa cerchi di solito in un’opera d’arte? Cosa non può mai mancare?

Spero che le persone mi vedano come un alleato nella difesa del dominio pubblico. Quando un’opera diventa esclusiva, rispondendo a un unico interesse estetico o una sola classe sociale, io mi chiamo fuori. Per me l’esperienza è un’arena pubblica e un potente strumento di riflessione sul mondo in cui viviamo, in continua evoluzione. Anche nell’attuale era digitale, ci trascina fuori dal flusso continuo di comunicazione facendoci riflettere su ciò che accade realmente davanti ai nostri occhi. Questo genera una piattaforma inedita per la nostra società, dove riflettere sull’attuale status-quo ed esplorare delle alternative. Quindi, per rispondere alla vostra domanda, la rilevanza pubblica è un fattore davvero importante per me.

Ricordi il primo artista con cui hai lavorato?

Non c’è un vero inizio nel mio rapporto di lavoro con gli artisti. Hanno tutti contribuito a definire il mio approccio e la mia identità intellettuale attuali. Per esempio, ricordo di essermi unito al team di PS1 come tuttofare a chiamata nel 1997, a New York, mentre stava organizzando la mostra “Cities on the Move”. Non conoscevo nessuno dei partecipanti già famosi all’epoca – come Kim Soo-ja o Hans Ulrich Obrist – ma quell’esperienza ha dato il via a un cambio di rotta fondamentale per la mia vita. Lavorando a stretto contatto con gli artisti ho capito che organizzare una mostra è un po’ come scrivere un testo. Devi conoscere la tua audience: cosa comunicare e in che modo.

A talk with Bart Van Der Heide
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Per me l’esperienza è un’arena pubblica e un potente strumento di riflessione sul mondo in cui viviamo, in continua evoluzione.

In che modo l’esperienza allo Stedelijk Museum di Amsterdam ha influenzato la tua ricerca e il tuo approccio personale?

La collezione dello Stedelijk Museum ha influenzato la cultura olandese degli ultimi 125 anni. La maggior parte dei giovani studenti entra in contatto con l’arte moderna e contemporanea per la prima volta grazie a questa istituzione. Te ne rendi conto quando le persone iniziano a parlare del legame che sentono con alcune opere specifiche. È stato un piacere e un onore lavorare in questa atmosfera, con tutte queste storie ed esperienze personali.

Sei stato recentemente nominato direttore del Museion di Bolzano, posizione che assumerai in maniera effettiva a partire da Giugno 2020. Puoi già dirci cosa prevedi per il nuovo programma del museo?

Museion sta crescendo, con una squadra motivata e ambiziosa. È riuscito a costruire un profilo internazionale grazie a mostre, nuove produzioni e acquisizioni. Il mio obiettivo è quello di consolidare questa reputazione e, allo stesso tempo, sviluppare gli elementi che sono stati più trascurati. Questo significa che accresceremo l’impatto del museo oltre al programma di mostre e introdurremo nuove piattaforme sperimentali per l’innovazione culturale e sociale. Non vedo l’ora di rimboccarmi le maniche e iniziare questa collaborazione.

Che tipo di relazione viene sviluppata tra te e gli artisti con cui collabori?

Lavorare a stretto contatto con gli artisti mi permette dare vita a mostre ancora più significative e contemporanee, per questo cerco sempre di includerli il prima possibile nelle discussioni e nello sviluppo di nuove idee.

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Hai fatto parte della giuria che ha assegnato il quarto This Is Not a Prize. Per quale motivo avete scelto di premiare l’artista giapponese Shimabuku?

Le fotografie, i video e le installazioni di Shimabuku affrontano la politica quotidiana mostrando situazioni a un primo sguardo innaturali e bizzarre. La poetica del suo lavoro emerge quando materia e culture biologiche si adattano a nuovi contesti di utilizzo e di vita. In questo modo, l’artista dimostra un’accuratezza sorprendente nel rappresentare la coscienza contemporanea, plasmata dal dislocamento e dall’isolamento, senza cadere nel moralistico o nel distopico. I suoi soggetti si adattano continuamente alle forme ibride dell’esistenza, che incontrano attraverso l’intervento economico, culturale o artistico. In questo modo celebra la versatilità e flessibilità della vita stessa, un messaggio sempre più difficile da percepire in questo periodo, con l’aumento di fenomeni legati a xenofobia e protezionismo. Allo stesso tempo, esplora un futuro in cui il pianeta risulta influenzato dagli essere umani, ma non in modo antropocentrico come potremmo immaginare. La visione artistica di Shumabuku porta questi temi urgenti all’attenzione di un ampio numero di persone, con esperienze e interessi differenti. Per me, questo è il lavoro di un vero genio.

Come hai conosciuto Mutina? Cosa ti ha colpito di più dell’azienda?

This Is Not a Prize è un’iniziativa filantropica esemplare. Dà spazio e fiducia agli artisti, senza la pressione di dover produrre immediatamente qualcosa. L’interesse sta più nel processo: dare il via a uno scambio e una relazione in previsione di una mostra istituzionale che avrà luogo in un futuro ancora impreciso. Le mostre Mutina dimostrano un approccio simile e incoraggiano gli artisti a esplorare nuovi interessi, materiali e metodi di produzione. Penso di aver visitato BRIC di Nathalie Du Pasquier quattro volte e tutt’ora mi piace moltissimo, proprio per questa ragione. Svela una tecnica di lavoro dell’artista che non conoscevo prima: strutture architettoniche astratte fatte di mattoni prodotti industrialmente. La collaborazione con Mutina ha anche dato vita a un nuovo modulo da proporre al mercato. Lo trovo emozionante. Il sostegno da parte di enti privati è in grado di generare un impulso fondamentale per l’ambizione e la creatività che le istituzioni pubbliche non sono sempre in grado di mantenere a causa delle regolamentazioni. Vedo un grande potenziale nell’attivazione di nuove forme di collaborazione tra pubblico e privato, basate su tempistiche, libertà artistica e innovazione.

Shimabuku dimostra un’accuratezza sorprendente nel rappresentare la coscienza contemporanea, plasmata dal dislocamento e dall’isolamento, senza cadere nel moralistico o nel distopico.

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