A talk with Fernando Melo
Ci parli del tuo percorso nel mondo della danza contemporanea? Come ti sei appassionato a questa disciplina e quando hai capito di volerne fare una professione?
Ho iniziato a studiare danza nella mia città natale, Rio de Janeiro, quando avevo 8 anni. All’età di 16 anni vinsi una borsa di studio per la Vienna State Opera Ballet in Austria e da allora ho sempre vissuto in Europa. Fin da giovane, sapevo di voler diventare un coreografo: immaginare, sviluppare e dirigere spettacoli. Immagino che il mio sogno sia diventato realtà.
Qual è la parte che preferisci del tuo lavoro di coreografo?
Mi piace l’idea di poter immaginare o sognare diversi scenari, a cui io stesso, se facessi parte del pubblico, vorrei assistere. Poi, qualche mese dopo, quei sogni diventano realtà proprio davanti ai miei occhi.
E quella più complessa?
Tra il sogno e la sua attuazione, c’è un complesso processo di organizzazione e coordinazione con artisti, designer, compositori, squadre di produzione e intere istituzioni.
Quali elementi – materiali ed emozionali – non possono mai mancare all’interno di una performance?
Questo dipende molto da coreografo a coreografo. Per me è fondamentale riuscire a generare una reazione emotiva da parte del pubblico.
Mi piace l’idea di poter immaginare o sognare diversi scenari, a cui io stesso, se facessi parte del pubblico, vorrei assistere. Poi, qualche mese dopo, quei sogni diventano realtà proprio davanti ai miei occhi.
Cosa comporta sviluppare una performance site-specific, come quella realizzata per Mutina in occasione dell’evento Per noi è lo spazio? In cosa si differenzia rispetto a una coreografia a teatro?
Per creare una coreografia site-specific, è importante trarre ispirazione dallo spazio che viene assegnato.
A differenza del teatro, dove è come se venisse ricreato un mondo sul palco, qui si inizia dallo spazio e dal suo potenziale già esistente. Inoltre, per quanto riguarda l’audience, gli spettatori a teatro sono immersi nella “sicurezza” della platea buia, mentre in un luogo come Spazio Mutina hanno la possibilità di scegliere cosa guardare e per quanto tempo soffermarsi.
A cosa ti sei ispirato per If Walls Could Speak? Che tipo di esperienza volevi creare per gli spettatori?
Volevo che gli spettatori, spostandosi da una stanza all’altra, assistessero a interazioni umane intime e personali, come se stessero spiando all’interno di un appartamento attraverso una quarta parete invisibile. Se le pareti di questi spazi potessero parlare, racconterebbero le nostre storie: storie di famiglie, relazioni, festeggiamenti, solitudine… gli alti e bassi dell’essere umani.
Che ruolo hanno giocato le collezioni ceramiche all’interno della performance?
Le ceramiche sulle pareti e sui pavimenti mi hanno ispirato a esplorare le interazioni umane che avvengono all’interno di quelle stanze.
Ricordi la prima volta che sei entrato in contatto con Mutina? Che impressione ti hanno fatto l’azienda e il suo team?
Dal primo momento in cui sono entrato nella sede di Mutina, ho avuto la sensazione di visitare un museo di arte contemporanea, di parlare con artisti e curatori. Persone estremamente gentili, appassionate e professionali. Il tipo di persone che piace a me.
Hai una collezione Mutina preferita? Perché?
È una scelta molto difficile. Tuttavia, c’è una collezione che mi viene in mente, perché ha saputo stimolare il mio lato creativo: Kosei di Vincent Van Duysen. C’è qualcosa di emozionante nel modo in cui delle forme così semplici possono essere utilizzate in tante combinazioni e design diversi.
Se potessi sviluppare una performance site-specific in un qualsiasi luogo o edificio nel mondo, quale sarebbe? Per quale motivo?
Non c’è un luogo specifico. Penso che interagire con gli spettatori in diversi modi sia sempre un vero privilegio. Abbandonare la sicurezza del teatro per creare degli spettacoli site-specific può essere davvero impegnativo. Tuttavia, incontrare diversi tipi di audience presso musei, parchi o chiese è sempre un’esperienza estremamente gratificante.
Volevo che gli spettatori, spostandosi da una stanza all’altra, assistessero a interazioni umane intime e personali, come se stessero spiando all’interno di un appartamento attraverso una quarta parete invisibile.