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A talk with Guido Costa
15.01.21

A talk with Guido Costa

Fotografie di Enzo Obiso
Filosofo, storico dell’arte, curatore e fondatore dell’omonima galleria di arte contemporanea di Torino, Guido Costa ha avuto un percorso inusuale, che l’ha portato man mano ad avvicinarsi e appassionarsi all’ambito della curatela, per poi farne una professione. Ci ha parlato di questa evoluzione, dello stretto rapporto con gli artisti e dell’importanza di mantenerlo nel tempo, del suo approccio personale e di come questo venga poi applicato al programma di mostre di Guido Costa Projects.
Filosofo, storico dell’arte, curatore e fondatore dell’omonima galleria di arte contemporanea di Torino, Guido Costa ha avuto un percorso inusuale, che l’ha portato man mano ad avvicinarsi e appassionarsi all’ambito della curatela, per poi farne una professione. Ci ha parlato di questa evoluzione, dello stretto rapporto con gli artisti e dell’importanza di mantenerlo nel tempo, del suo approccio personale e di come questo venga poi applicato al programma di mostre di Guido Costa Projects.
A talk with Guido Costa

Ti va di parlarci del tuo percorso? Com’è nata e come si è evoluta la tua passione per l’arte contemporanea?

Ho un percorso piuttosto complesso e mai avrei pensato di diventare gallerista. Dopo essermi laureato in estetica con Gianni Vattimo, per un po’ lavorai come insegnante e scrissi testi e sceneggiature per l’ambito dello spettacolo, poi arrivai a Repubblica. Fu allora che cominciai a visitare mostre ed eventi artistici, superando la mia ritrosia verso le arti visive e, quando mi venne a noia anche il mondo del giornalismo, decisi di sperimentarmi curatore indipendente. Così, senza esperienza alcuna. Parlavo le lingue straniere e di conseguenza mi orientai subito sul circuito internazionale. Fu divertente e costruttivo. Poi, grazie a un progetto che mai realizzai, arrivai a Napoli, dove conobbi due collezionisti che avevano appena aperto una galleria e cercavano un direttore che gestisse il tutto. Accettai, mi trasferii di corsa e tutto cambiò. Iniziai ad occuparmi di artisti americani e di fotografia, e misi in piedi con i miei boss napoletani una programmazione da paura. Durò cinque anni, fino al 1999, ma fu una vera meraviglia.

Lavori principalmente come curatore, ma sei conosciuto anche come filosofo e storico dell’arte. Cos’hanno in comune queste figure e in quale ti rispecchi maggiormente?

Penso che occuparsi d’arte seriamente significhi attingere ai più svariati campi del sapere, guidati da un’inesauribile curiosità. Vuol dire utilizzare strumenti teoretici sofisticati, aver consapevolezza della storia delle arti, essere informati sulle tecniche e a proprio agio con la tecnologia. Vuol dire anche saper esercitare certe doti empatiche, sia con gli artisti che con il pubblico, specializzato o meno. Devi essere un po’ di tutto, senza enfatizzare una singola competenza. Non puoi essere solo testa, solo braccio, o solo cuore. Una mostra è un organismo assai complesso: se vuoi tenerlo in vita devi operare su più fronti con infinite cautele. Altrimenti fai il mercante e parli solo di soldi.

A talk with Guido Costa

Qual è la storia di Guidocosta Projects? Che obiettivi si pone la galleria attraverso il programma di mostre?

Guido Costa Projects nasce a Torino nel 1999 e all’inizio voleva essere una galleria senza galleria. Trovavo limitante avere uno spazio fisico e mi interessava di più seguire la realizzazione di progetti specifici, ideati dai miei artisti per le istituzioni o, eventualmente, per spazi privati. Per un paio di anni ho cercato di lavorare così, come una sorta di manager creativo, ma ho avuto immediatamente contro il sistema delle gallerie e delle fiere. Negli anni, pur tra mille difficoltà, dovute soprattutto allo sforzo economico connesso alle tante produzioni originali, ho realizzato più di cinquanta progetti, nella maggior parte dei casi acquisiti per intero da grandi musei e grandi collezioni private in Italia e all’estero. Il programma di GCP è assolutamente idiosincratico, riflette le mie passioni, il mio gusto e la comunità di artisti con cui lavoro, che rimangono gli stessi con i quali ho iniziato la mia avventura di gallerista. Ogni tanto arriva qualcuno di nuovo, ma non è quasi mai accaduto che io abbia abbandonato un vecchio compagno al declinare della sua fortuna. So che è una visione un po’ romantica e scarsamente remunerativa nel sistema dell’arte attuale, spietato e cannibale, ma proprio non riesco a fare altrimenti.

Quali criteri applichi come curatore nella scelta degli artisti con cui lavorare? Sono gli stessi che segui in veste di collezionista?

Degli artisti con cui decido di lavorare mi devono innanzitutto interessare l’energia creativa che comunicano, la chiarezza progettuale, l’ossessione nella ricerca e la tenacia nel superare le difficoltà. Diffido dei centometristi e mi piacciono i maratoneti. Non tollero l’accademismo, le mode e le piccole furbizie per rimanere a galla. Mi piacciono i progetti impossibili e le sfide al limite del sensato. Ho un rapporto ambivalente con i curatori: se mi citano Heidegger o Lacan, capisco subito se l’hanno letto veramente o se è un amico dell’amico dell’amico...

Penso che occuparsi d’arte seriamente significhi attingere ai più svariati campi del sapere, guidati da un’inesauribile curiosità.

Ricordi il primo artista che hai esposto? Hai un aneddoto da raccontarci?

Il primo artista che ho esposto, in una galleria di Torino effimera, è stato William S. Burroughs, nel 1991. Ero all’inizio della mia avventura nell’arte e mi interessavano soprattutto le contaminazioni tra le arti e quelle figure d’artista non propriamente assimilabili al panorama delle gallerie. Fu una mostra curiosa, dove esposi non solo una nutrita selezione delle pitture recenti di Burroughs, ma costruii anche una sorta di scenario burroughsiano, fatto di tanti elementi mischiati tra loro, terrari con insetti vivi, cut up sonori, dei mobili di Mollino e una grande libreria-discoteca allestita con l’aiuto di John Giorno. Una mostra strana e bella, sicuramente ingenua, ma che molti ancora si ricordano.

Come hai conosciuto Mutina? Cosa ti ha colpito di più dell’azienda?

Mutina l’ho conosciuta grazie a Sarah Cosulich che anni fa mi ha presentato Massimo e mi ha invitato alle mostre di Fiorano, alle quali ho sempre partecipato con grande piacere. Massimo mi è molto simpatico: mi piacciono la sua energia, la sua schiettezza, la sua capacità di rischio e la sua generosità. Se fosse un artista, lo prenderei in galleria con me. Con Mutina ho collaborato recentemente nella realizzazione del grande mosaico di Paul Thorel per il Museo Madre di Napoli e ho avuto modo di apprezzare l’assoluta professionalità di tutto il gruppo, la loro capacità di fare squadra, la loro dinamicità. Insomma, sono proprio bravi ed è un piacere raro lavorare con loro.

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Hai una collezione Mutina preferita? Perché?

Malgrado il mio gusto non sia propriamente minimalista, adoro Folded di Raw Edges. Se un giorno mi comprerò una casa (poco prima di andare all’ospizio), giuro che ne farò gran uso.

C’è un pezzo della tua collezione personale a cui sei particolarmente affezionato?

Sì, e torniamo a William S. Burroughs. In questa fatidica mostra vendetti un solo lavoro, il più bello, una grande lamiera di acciaio, dipinta a spruzzo e perforata da diversi fori di pallottola (era l’opera più importante della serie delle Shotgun Paintings, presentata l’anno prima alla Biennale di Venezia). Lo comprò una coppia, che persi di vista per almeno vent’anni. Un giorno, per caso, li incrociai sotto casa. Domandai subito del quadro e loro mi dissero che l’avevano tenuto appeso in casa per tanto tempo, ma poi si erano stufati e adesso era dimenticato in cantina. Mi parve un segno del destino: trasformai i milioni di lire del suo prezzo di allora in euro e feci un’offerta. Accettarono e mi ripresi l’opera. Adesso è in casa mia, appesa sopra una Gibson Les Paul del 1957, anno della mia nascita.

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Degli artisti con cui decido di lavorare mi devono innanzitutto interessare l’energia creativa che comunicano, la chiarezza progettuale, l’ossessione nella ricerca e la tenacia nel superare le difficoltà.

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