Qual è il tuo rapporto con la fotografia?
Risponderei con questa frase di William Eggleston: “Whatever it is about pictures, photographs, it’s just about impossible to follow up with words. They don’t have anything to do with each other”. Ovvero, è impossibile esprimere a parole quello che trasmettono le fotografie, perché parola e immagine non hanno nulla in comune.
Come descriveresti il progetto realizzato per Mutina? Quali sono stati i punti di partenza per lo sviluppo del concept?
Mutina ha acquistato un palazzo a Modena, in via Blasia, accanto al ghetto ebraico, con l’obiettivo di trasformarlo in una residenza esclusiva per i loro ospiti. Il progetto fotografico è nato dalla volontà di documentare gli spazi della casa prima e durante i lavori di ristrutturazione. Dal momento che si trattava di luoghi vuoti, oltre agli ambienti, ho immortalato la luce, le tracce e i segni del tempo.
Parte del progetto si è poi evoluto in un editoriale uscito su Alla Carta 14, dove ho pensato di affiancare le fotografie di moda a degli still-life di elementi che mi interessava valorizzare. Volevo restituire importanza a quegli oggetti e quei luoghi che normalmente non vengono presi in considerazione o sono dati per scontati. É stato di grande ispirazione il lavoro di Ed Ruscha del 1961 “Seven products, Twentyfive apartments, Three palm trees, Six rooftops and One aerial view”.