In occasione della sua quinta edizione, This Is Not a Prize è stato assegnato all'artista Silke Otto-Knapp che, attraverso il linguaggio pittorico, porta avanti un percorso coerente e di grande importanza storico-artistica. I suoi dipinti, rigorosamente in bianco e nero, rappresentano delle armoniose coreografie dove la figura è interprete di un sofisticato dialogo con lo spazio della tela.
A talk with Silke Otto-Knapp
In occasione della sua quinta edizione, This Is Not a Prize è stato assegnato all'artista Silke Otto-Knapp che, attraverso il linguaggio pittorico, porta avanti un percorso coerente e di grande importanza storico-artistica. I suoi dipinti, rigorosamente in bianco e nero, rappresentano delle armoniose coreografie dove la figura è interprete di un sofisticato dialogo con lo spazio della tela.
In conversazione con la curatrice di Mutina for Art Sarah Cosulich, Silke Otto-Knapp ha parlato della sua profonda fascinazione per la danza e di come abbia influito sul suo lavoro, dell’evoluzione del suo approccio, tecnica e modo di relazionarsi allo spazio espositivo.
Partendo dalla tua incredibile passione per la danza, in che modo è iniziata e come ha influenzato il tuo lavoro?
Ho una grande passione per la danza da tanto tempo. Ho vissuto a Londra, dove è possibile assistere a esibizioni sia storiche che contemporanee. Mi ci è voluto un po’, ma ho capito di avere un forte interesse per la danza contemporanea e per quei momenti nella storia della danza in cui sono avvenute delle trasformazioni. Trovo molto interessante il Ballet Russe, così come gli anni sessanta e la Danza Postmoderna con Yvonne Rainer, Trisha Brown e il Judson Dance Project.
A Londra ho conosciuto Michael Clark, tramite amici comuni, e ho seguito il suo lavoro molto da vicino. Il suo stile ha influenzato fortemente il mio pensiero riguardo la danza contemporanea, perché reinterpreta tecniche del balletto classico inserendole in una concezione moderna della messa in scena, del movimento e dell’esperienza. In qualche modo, queste caratteristiche hanno trovato spazio nel mio vocabolario visivo.
I miei dipinti più recenti presentano contrasti di luce e buio realizzati in acquarello, in modo da avere un’unica silhouette che descrive un particolare movimento. Questa semplificazione sposta l’attenzione dalla danza in sé, enfatizzando l’esperienza fisica dell’osservatore e il modo in cui entra in contatto con il dipinto nello spazio, il che mi ha portata a riflettere ulteriormente sull’architettura e l’esposizione.
Come ti sei resa conto che l'acquarello poteva, in un certo senso, “danzare” sulla tela?
È stato un processo lungo. Durante la scuola d’arte, ho avuto una relazione ambigua con la pittura: non ero granché interessata alla storia, ma ero molto affascinata da quello che i dipinti potevano fare e dall’influenza che le immagini hanno su di noi.
Iniziai a sperimentare con l’acquarello su carta, ma il risultato era troppo simile a un’illustrazione per i miei gusti e decisi di provare a usarlo su tela. Inizialmente lavorai con le luci al neon, lasciandole contro il bianco della tela e creando quasi un’immagine residua. Poi ho cominciato a sperimentare con strati e ripetizioni, riapplicando e rimuovendo il colore, lavorando con i lavaggi… e i dipinti più recenti, che si focalizzano sul contrasto tra aree chiare e scure, spingono questa tecnica al limite. Allo stesso tempo, la allontanano da quello che si pensa l’acquarello dovrebbe essere, perché non presentano né disegni né segni di pennello.
La tua pittura fa uso esclusivo delle sfumature tra il bianco e il nero, e non hai bisogno di utilizzare altri colori...
Quando ho iniziato ad interessarmi al paesaggio, come tema e genere pittorico, tutti gli altri colori in qualche modo hanno lasciato il mio studio. Lavoro aggiungendo e togliendo, di conseguenza figura e superficie si trovano sempre in una relazione attiva: mentre sto rimuovendo qualcosa, il pigmento si sposta accumulandosi in aree diverse, quindi alcune parti diventano più chiare e altre più scure allo stesso tempo. È proprio come in una danza, effettivamente.
Volevo anche capire come mai fossi interessata al paesaggio, quindi l’ho studiato in termini quasi astratti, riducendo tutti i dettagli e lavorando solo con i principi di aggregazione e rimozione. Di solito i miei paesaggi sono costituiti da una distesa d’acqua, il cielo e magari una roccia. Fogo Island, in Canada, ha influenzato molto i miei lavori. Non riproducono un luogo, ma è come se qualcosa fosse rimasto instillato.
Quanto è importante la costruzione dello spazio espositivo nella tua ricerca?
È molto importante. Penso sempre al contesto espositivo e di solito lo considero una scena che posso allestire. Si tratta di qualcosa di temporaneo: le mostre durano per un lasso di tempo definito all’interno di un luogo specifico, quindi penso sempre all’architettura, al contesto, alla città in cui si svolgono, al tempo, che tipo di luce entra nello spazio… tutte queste caratteristiche si combinano.
Ultimamente, quando l’ambiente lo permette, lavoro con pareti autoportanti. Unisco i dipinti come se fossero degli schermi, in modo che stiano in piedi da soli, e cerco di creare una situazione attiva per l’osservatore. Sto anche lavorando con dipinti fatti da più pannelli, il che mi permette di raggiungere ancora meglio lo spazio architettonico e pensare alle mie opere in relazione ad esso.
Ascolti musica quando dipingi?
Lo facevo, ma ora non più molto. Mi piacciono molto gli audiolibri, ascolto tanti romanzi. Associo spesso un particolare gruppo di dipinti al libro che stavo ascoltando mentre li realizzavo. Non c’è una vera e propria connessione, ma è come se avessero conservato la sua aura.
Sei nata e cresciuta in Germania, poi ti sei trasferita e hai studiato a Londra, hai vissuto in Inghilterra per molto tempo e ora ti trovi a Los Angeles. In che modo tutti questi luoghi hanno influenzato la tua pittura? E come vivi Los Angeles?
C’è una correlazione tra il modo in cui ho vissuto e le decisioni che ho preso in merito a cambiare la mia situazione abitativa, ma non so se ci sia una connessione diretta con il mio lavoro. Forse ho bisogno di più tempo per rendermene conto.
Da quando mi sono trasferita a LA penso alla spazio in modo diverso perché qui ho uno studio più grande, ma dipende anche dalle opportunità e dagli spazi espositivi. Inoltre, dal momento che sono per lo più confinata in casa mia, lavoro molto più attraverso materiali di ricerca ed elementi che ritrovo nel mio spazio privato piuttosto che all’esterno.